A proposito di etica del calcio-impresa, il mondo pallonaro italiano attraversa una crisi non solo economica ma anche di valori: non sarebbe necessario un cambiamento?

Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte. Solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande“.
(Adriano Olivetti)

Ormai si parla di calcio-impresa. Non più e non solo sport, dunque, ma attività imprenditoriale per fornire un servizio ai clienti-tifosi. Servono imprenditori disponibili al conseguimento di obiettivi compatibili con la solidità dei bilanci.

Ricordiamo che quando, nel lontanissimo 2002, Diego Della Valle fu accolto a Firenze come il salvatore della patria dopo essersi assunto l’obiettivo di far ripartire la squadra viola dalla C2, si espresse all’atto del suo insediamento con parole assolutamente rilevanti anche oggi: “Le uniche vere aziende pubbliche sono le società di calcio perché, come e quanto nessun’altra, appartengono alla gente”. Il calcio è un’impresa anomala. Una squadra è la bandiera della sua città, ad essa appartiene sempre e comunque.

Sempre moltissimi anni fa il Corriere della Sera pubblicò un articolo del sociologo Francesco Alberoni, ancor oggi più che attuale, in cui si sosteneva come il capitalismo fosse alle corde per aver perduto la base etica. Molti manager avevano falsificato bilanci, tradito la fiducia degli azionisti e usato il potere di cui disponevano per arricchirsi a scapito della crescita della società che dirigevano. Un vero e proprio stravolgimento delle regole etiche dell’imprenditoria, che sono severe secondo Alberoni: non agire in modo fraudolento, non stringere patti segreti, non alterare la concorrenza e il mercato, non cambiare le regole del gioco, mantenere la parola data e garantire al consumatore la qualità del prodotto.

Se dunque il calcio è un’impresa particolare e se una squadra di calcio potrebbe essere assunta come l’azienda pubblica per eccellenza (la c.d. “public company” secondo il modello anglosassone) sembra ovvio concludere che l’impresa-calcio si dovrebbe muovere secondo regole rigorosamente etiche.

Queste regole sono state ripetutamente tradite nel corso degli anni da quanti hanno a che fare con le sorti del calcio nazionale. Costoro non solo non si sono adoperati per farla crescere, ma hanno portato in perdita quasi ovunque l’azienda calcio. Hanno, di fatto, violato il contratto con i clienti-tifosi.

Ci sarebbe bisogno di una ventata d’aria nuova, di gestioni meno autoreferenziali a livello istituzionale e di club. Sarebbe, oltretutto, doveroso nei confronti delle generazioni che verranno.

Anche se non siamo affatto convinti che oggi significato della parola etica abbia un senso per la maggioranza delle persone, va sempre ricordato che il cambiamento può essere ottenuto anche dalla ferma determinazione di pochi ma buoni.

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